Galleria Virtuale


Aldo Pagliacci

Aldo Pagliacci (S. Benedetto del Tronto, 1913) da ragazzo frequenta botteghe di artigiani in vari centri delle Marche e apprende tutti i segreti del mestiere nel campo sia della pittura che della decorazione. Si trasferisce a Roma giovanissimo e, pur tra mille difficoltà economiche, continua a dedicarsi alla pittura. A sedici anni sue opere vengono esposte alla Biennale di Venezia.
Indifferente ai successi che potrebbe subito avere in Italia, emigra e si reca in Sud America. Di anno in anno lascia un paese, per compiere sempre nuove esperienze. Soggiorna così in diverse riprese in Brasile, Argentina, Cile, Perù, per poi recarsi anche in Messico, Bolivia, Venezuela.
La sua pittura è tutta una esaltazione della luminosità e del calore dei luoghi che va visitando. Ma accanto a quella che si potrebbe definire la “tematica ambientale” inserisce una struttura compositivo-cromatica schiettamente italiana, di tipo quasi rinascimentale. Da tale sintesi scaturiscono una serie di dipinti in apparenza esotici (anche nelle rigogliose nature morte e negli accesi fiori), nella sostanza immersi in un armonico spazio dominato da un raro equilibrio di suadenti stesure.
Le sue opere vengono richieste da tutte le gallerie e musei del Sud e del Centro America, e contemporaneamente dagli ambienti artistici degli USA.
Dopo gli anni sessanta è nuovamente in Italia, ma subito dopo parte per l’Africa, che ritrarrà in un nuovo gruppo di dipinti. Nel 1971 ritorna ancora in Italia e apre un suo studio a Roma, diventando assiduo frequentatore dei piccoli bar di via del Babuino. Ma continua a girovagare, questa volta in Europa, in particolare recandosi a più riprese in Germania, Olanda, Svezia, Norvegia.
Indifferente alla critica che, nonostante tutto, esalta la sua opera, Aldo Pagliacci non ha mai voluto presenziare all’inaugurazione di una sua “personale”.


AUTORITRATTO ovvero UNA GIORNATA

Mi alzo la mattina presto e “ascolto” i dolori della gamba: sindrome dell’arte fantasma.
Ho 75 anni con fegato rettificato (causa l’alcool) varie volte. I dieci gatti sparsi per l’appartamento mi guardano fiduciosi, mi spiano. Li amo tutti. Cicciolino, il siamese soprannominato “il Guerriero”, mi avvolge con lo sguardo di azzurro purissimo. Vado in cucina e faccio il caffè. Fuori dalla finestra nel mio giardino ben rialzato, gremito d’alberi di aranci e limoni, splende il grande ibiscus dai fiori rossi, colpito da lame di sole. E’ bello come la pura voce di Dio che nessuno ascolta e vede nella natura.
Devo consegnare due violini ancora non finiti. Penso che, davvero, la vita è un ignobile calendario. Passo dalla cucina nell’androne, a volta, la casa è una vecchia costruzione all’antica con muri a sghimbescio spessi come fortini. Due fili di ferro corrono lungo le pareti e, appesi, una ventina di violini finiti e da ritoccare. Ne devo finire due, e presto.
I violini sono belli. La liuteria è un rompicapo affascinante, ambiguo, è empirismo, illogico come gli amori impossibili. L’elaborazione intellettuale per la costruzione di un violino è molto simile alla elaborazione che l’artista fa per l’acquaforte, la gastronomia, i films. Tutte queste arti sono cervellotiche, spesso casuali, come quando un liutaio inglese dell’Ottocento scoperse che mettendo del vetro tritato in un recipiente in cui sono già state sciolte le resine, il vetro impedisce loro che formino degli strati: sandracca, benzoino, trementina di Venezia, gomme ecc.. C’è qualche liutaio il quale crede che la polvere di vetro serva per la vernice stessa: sogno impossibile. Eh, la cultura!
Amo il legno, è sempre vivo, profumato, nobile, bello. Vidi in un retrobottega di un amico falegname, tavoloni tagliati, e in uno di questi era nato un ramoscello di una trentina di centimetri con le belle foglie verdi: un fatto commovente, mai visto prima. Insomma, la liuteria è fatta dal liutaio che sa di architettura, geometria, acustica, pittura, scultura: e da un mercante che offre la metà!
Alle otto, alla radio, sento l’oroscopo ma dimentico sempre quello che dice. Nel giardino il sole ora si infrange sugli alberi stracolmi di aranci e sulle cose attorno, le vernici dei violini splendono, un “la” pizzicato da una mosca vibra nell’aria dolce. Mi trascino nel giardino e servo il mangime ai gatti. Torno nell’androne dove c’è un disordine orribile ma gaio; e se non ci mette mano la donna che per due ore viene a fare le pulizie, trovo tutto.
Ho lo studio ma la luce riflessa è fredda, quasi ostile. Nell’androne dipingo e costruisco i violini oltre che i segni e i desideri mai appagati.
Faccio un altro caffè. Pillola per la circolazione. Metto i pennelli ad ammorbidire nell’acetone, pulisco la tavolozza. Sto bene, seduto comodo, la vetrata che dà sul giardino fiorito. Gilda, la gatta rossa soriana, bellissima, ronfa sul mio ginocchio (avevo scritto ginocchia). Spero che qualcuno venga a trovarmi, ho bisogno di tutti: per la spesa, la banca, la posta, per salire e scendere le scale: e sempre a dire “grazie”. Faccio una vita durissima.
Dipingo e mi sento sciogliere, mi sento “io”. A mezzogiorno viene un amico che mi prepara il pranzo e qualche volta mi porta in macchina a prendere una boccata d’aria.
Ho detto che splende il sole, ma avverto dai dolori che nel pomeriggio pioverà. I dolori si acutizzano, smetto di lavorare e Dio, ascoltandomi, si mette le mani sulle orecchie.
Passo nell’ampio soggiorno dal pavimento coperto da un tappeto persiano. Ci sono cinque vetrinette stracolme di libri, belle sedie, un divano letto, quadri alle pareti, una consolle seicentesca ricolma di soprammobili, un semplice tavolo di castagno coperto di un bel tappeto cinese.
Dalla finestra, oltre gli aranci e gli ibiscus, la sterlizia in fiore, vedo Punta Imperatore col faro a picco sul mare che s’infrange lontano, silenzioso sulle rive deserte di Citara. Spero davvero che qualcuno venga a trovarmi, l’angoscia sta arrivando subdola.
Nella serata TV, pane abbrustolito, latte, miele e noci se ci sono. Cerco di vincere il disgusto per la vita che faccio, per questo dolore persistente, tenace, notte e giorno, che ancora non è riuscito ad abbattermi. Poi quasi di colpo qualcosa si muove attorno, una telefonata, un gatto che si struscia sulla mia scarpa, una pianta in fiore, conducono i pensieri per altre rive, la voglia di dipingere; ma è una spinta quasi rabbiosa di reazione. Non ho pensione, non sono figlio d’Italia, forse non me la merito come coloro che, invece, ne hanno magari tre, una di ricambio.
Sono le nove circa. TV accesa. Dio, che sonnifero è la TV: noiosa, provinciale, stupida. Specie con quei vecchi comici restaurati a dire battute tarlate dal tempo.
Poi viene il sonno ma non dormirò. Sfileranno nella memoria fantasmi di ricordi, i rancori, le attese snervanti per qualche cosa che non sai nemmeno tu.

Noi stessi:
il male racchiuso
nel bene
come i semi
nei frutti.

Mi risveglio che nel video si stanno prendendo, sorridendo, a revolverate; ma prima, quell’imbecille che uccide sorridendo il suo prossimo, non c’era.
Gabriele, l’enorme gatto nero, si è appisolato sul letto, ma è sveglio, lo vedo dalla maniera con cui ascolta i rumori, le antenne (le orecchie) sempre in movimento.
Non so se dormo. Ora l’imbecille è scomparso, compaiono seni, sesso maschile e femminile, ma tutto è di cattivo gusto, buono per ragazzini, premo pulsanti: Craxi, Reagan, De Mita, discorsi, promesse, promesse, promesse.
Mi addormento e mi sveglio alle sei. Ho dormito due ore. E’ ora di alzarsi. La luce dell’alba è chiara, il cielo pulito, mi sento bene. Ho da incollare il manico di un violino alla cassa. Stasera lo provo, è emozionante, ho riempito la giornata.
Sono sempre vissuto con una donna, moglie o non moglie. Ora la solitudine corrode come un cancro. E allora per sfuggire alla noia perniciosa noia, bevo, ma senza gusto. Penso che c’è, in fondo, per me, una sola cosa: dipingere, e la speranza di trovare una donna dopo tre divorzi, la donna dei sogni. Dipingo perché solo davanti alla tela bianca trovo quell’equilibrio che non ho mai avuto nella vita: odio e amore che ho per essa.

E’ passata l’ombra
della giovinezza
fresca e sorridente
guardandomi ironica;
ed è scomparsa
senza voltarsi indietro.
Sulle grigie pareti
della casa
piove;
ma non scolorisce
la scritta spray:
Maria, ti amo.

Aldo Pagliacci
Ischia, 15 dicembre 1987